La “documentazione” fotografica del paesaggio urbano pone questioni essenziali sulle relazioni possibili tra lo sguardo di chi osserva, e il contesto da rappresentare, che non è mai costituito
dai luoghi in sé, ma dagli spazi tracciati dalle traiettorie umane che li attraversano, o a volte,
che li attraverseranno.
Questa è la ricchezza e insieme la complessità degli spazi urbani. Dunque viene da chiedersi perché documentare, e più che altro, come documentare un luogo in forte trasformazione quale è il Navile di Bologna. Il lavoro di Fabio Mantovani crea una sorta di bolla cristallina,
di oggettivizzazione che fa pensare alla fotografia tedesca della scuola di Düsseldorf, che evita
il conflitto ponendo lo spettatore in una sorta di limbo. La visione pulita, geometrica, “oggettiva”, costruisce una condizione di attesa, come una grande quinta teatrale montata sul reale che ci mette in ascolto degli eventi. Nella geometria delle immagini di Fabio Mantovani la fotografia trova un suo minimalismo visivo,
fatto di segni che si ripetono, e in qualche misura alludono alla possibilità di ricercare un ordine
che prescinde dal tempo. Poi improvvisamente siamo proiettati negli interni e appaiono persone, corpi, che in qualche modo si allineano in geometrie simili, divengono parte di un disegno generale. Il tempo del lavoro di Mantovani è fulmineo, folgorante. Non richiede una pausa, non ci fa fermare ma si schiaccia in una bidimensione disegnata che ci aiuta come una mappa a ridurre il luogo a disegno.
Testo ©Viviana Gravano